Orando (Luca 11. 1-12)

“Ed avvenne che essendo Egli in un certo luogo, orando, come fu restato, alcuno dei suoi discepoli gli disse: Signore, insegnaci ad orare”.
Avevano udito Gesù predicare e conversare; niuno parlò giammai come Lui. Eppure i discepoli non Gli chiesero che insegnasse loro l’arte oratoria per divenire eloquenti. Lo avevano veduto operare varie potenti operazioni che attiravano le folle a seguirlo. Però, mai gli dissero: Insegnaci ad operare anche noi miracoli e potenti operazioni.
Parlare bene — operare segni e prodigi attirano attenzione: sono i ministeri più desiderati e ricercati. Ma il discepolo pregò Gesù: Insegnaci ad orare.
Noi desideriamo orare: Preghiamo te di essere Maestro. Tu, dunque, insegna noi — che ti seguitiamo — ad orare...
Perché tale richiesta e non le altre? — Noi leggiamo semplicemente che Gesù aveva orato. ma ciò che disse, e l’accento, e la luce sul volto, e la irradiazione che emanava da Lui, non sono scritte, né potrebbero descriversi. Aveva, spesso, parlato agli uomini ed operato in favore degli uomini. — Ma nella orazione Egli comunicava coll’Invisibile — e parlava a Dio — Suo Padre.
Avevano veduto in Lui semplicità e fiducia. — Era tale la realtà dell’orazione che sembrava che l’Uditore di essa fosse là, visibile. Vi era, nel contegno di Lui, qualche cosa che si può immaginare, ma non descrivere. Vi è dunque un segreto in questa orazione, nella comunione coll’Invisibile.
Noi pure vogliamo comunicare col Padre; ma non sappiamo. Ricorriamo a Te. E Tu, Signore, insegna a noi ad orare.
Ed Egli non tracciò regola alcuna — ma rispose: Quando orerete, dite. DITE. Sia realtà ciò che dite. Non meccanica ripetizione delle parole. Se davvero orate, il vostro orare deve dire.
E dalla bocca di Lui furono pronunciate le parole — poche, semplici — che formano la preghiera chiamata il “Padre Nostro”.
Cioè, ogni vera orazione deve fare ricordare il Padre Nostro. Se no, non è orazione.
Padre — Nostro — Iddio è Padre — e il Padre è Dio. Onnipotenza ed amore vanno uniti.
NOSTRO — Egli è Padre anche ad altri. — Sii dunque unito agli altri e non privilegiato te solo.
“Che sei nei cieli”. — Quale che sia il significato di Cieli è certo che niuno può dire “nei cieli” e tenere la mente e i pensieri giù. In alto. In alto!
“Sia santificato il Tuo Nome”. Tenuto sacro. — Più tardi si capirà che significhi “fl Tuo Nome”. Quanto vi è nel “Nome”! “La Tua” quindi non la nostra, volontà sia fatta. — Perciò bisogna amarla, conoscerla, ubbidirla tale volontà.
“La Tua Volontà sia fatta in terra, come in Cielo”. — Procura dunque scoprire come Dio è servito dalle potenze superiori.
Solo ora — prima no — vengono le richieste per gli umani bisogni. Iddio prima — l’uomo dopo.
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Ogni giorno la porzione necessaria, non meno, perché si sarebbe mal nutriti, non più perché si cadrebbe malati per cibo eccessivo, Pane nella dovuta misura, che Dio solo conosce. Esso rappresenta i bisogni — e si stende al Pane dell’anima, che abbisogna del cibo che dà quella vita.
“E rimettici i nostri peccati; perciocché ancora noi rimettiamo i debiti ad ogni nostro debitore”. Riflettere, tremare prima di innalzare tale preghiera — perché se non abbiamo perdonato noi pronunzieremo la nostra condanna.
Segue subito la confessione di umana debolezza. — “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal maligno. Iddio non tenta alcuno, è vero: — però colui che davvero prega, riferisce tutto a Dio, e con uno slancio di fiducia audace, disconosce gli agenti secondarii, e rimette la causa a Colui che solo può tutto. — Co­me se Gli dicesse: Sono debole, Signore. Se tentato. cado. Tu devi impedire che io sia tentato. — Tu, liberaci dal maligno.
Matteo aggiunge: “Perciocché Tuo è il Regno, e la Potenza — e la gloria in sempiterno”.. — Non vi sono due Dii. Satana è un nemico pericoloso, è vero, ma non può fare nulla al di là del permesso del Signore. Tutto è nella mano di Dio — per sempre. E poi chiude, come a suggellare la preghiera, e, in modo che sia confermata, un grande: AMEN.

Il Fariseo e il Pubblicano
(Luca 18. 9-14)
La Parabola fa parte dell’ “Insegnaci a pregare” ed ha per scopo la conoscenza dei due uomini, che salirono al tempio per “orare”. Orare, la parola è la stessa usata in Luca 11. 1.
Lo scopo della parabola è di togliere a coloro che si credono giusti, e sprezzano gli altri, la loro illusione, e che essi imparino ad orare.
Due uomini salgono al tempio, e tutti e due per orare. Appartenevano a due classi distinte. Uno “fariseo”, cioè “separato santo”. L’origine dei farisei risale ad un risveglio religioso, a dopo il ritorno di Esdra ed altri dall’esilio per un nuovo principio nella Giudea. Col tempo. pero, rimase il nome, senza la sostanza. Si continuarono a chiamare “i santi”, ma solo pochi di essi lo erano. La maggioranza, come in tutti i movimenti religiosi, era rimasta col nome e colle cerimonie.
Il titolo di essere a quei tempi fariseo, essendo passato per la trafila della bocca di Cristo è divenuto un appellativo ingiurioso. Nessuno oggi vorrebbe essere chiamato fariseo.
L’altro che pure era salito al tempio era “pubblicano”, apparteneva, cioè, ad una classe odiata, gente senza reputazione, agli esattori dei dazi. La maggioranza di essi, immaginiamo. era gente senza scrupolo, e che spesso aggravavano i poveri.
I due salirono al tempio, fermandosi in due luoghi separati.
“Il Fariseo” stando in piedi orava. Non v’è a meravigliarsi per il fatto che stava in piedi come posizione, ma per quello che significavano le parole, per ciò che disse. Letteralmente “stava in piedi” significa in se stesso, come ammantellato nel suo “IO”; avendo sé davanti a sé. E disse:
“O Dio, io ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini: rapaci, ingiusti, adulteri”, notando l’altro che pure era salito, continuò sul paragone e disprezzò: “né anche come quei pubblicano”. Come se dicesse: che ha a fare costui nel tempio! Dopo il paragone tutto a danno di altri, continuò a tessere il proprio elogio. “Io digiuno due volte la settimana, io pago la decima di tutto ciò che posseggo”.
Se digiunasse davvero, e come; se davvero decimasse tutto, non è contraddetto, per insegnare a chi vuole orare che è possibile compiere tutto ciò, eppure non sapere ancora orare.
Di fronte al quadro del religioso soddisfatto, sta di contrasto l’altro:
“Ma il pubblicano, stando da lungi — nello “stando » di quest’ultimo mancano le parole del testo “a se stesso » — stando da lungi, non ardiva neppure di alzare gli occhi al cielo; anzi si batteva il petto, dicendo: O Dio, sii placato inverso me Il peccatore”.
Nel testo vi è “Il”, come a mettere se stesso in una luce umile, di essere lui solo il peccatore.
Il verdetto:
“Io vi dico”, disse Colui che ha diritto di dire: “Che costui tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quell’altro; perciocché chiunque s’innalza sarà abbassato, e chi si abbassa sarà innalzato”.
Ecco una lezione verso quell’imparare a pregare: Ed è di non vedere uomo alcuno peggiore di noi, nemmeno uguale a noi nel male, ma, concentrare l’occhio dell’esame rigoroso su noi stessi, e chiedere che Iddio ci accolga in misericordia.
Per lungo tempo, anche quelli che sono più vicini al Signore, notano che nel tempio del loro cuore si muovono due che salgono ad orare. Ora è uno ed ora è l’altro che parla.
Il fariseo è fondato su personale giustizia; colla mente, se non colla lingua, disprezza altri, innalzando se stesso.
L’altra persona — il penitente — in momenti di grandi prove. si umilia, e invoca di essere nascosto nella giustizia di Dio.
Il Signore non si stanca, continua a lavorare, infimo a tanto che il fariseo scompare, e rimane solo il penitente. La coscienza del peccato ingigantisce, non perchè si moltiplichino trasgressioni; ma perchè essa avanza a misura che la luce del cielo sì fa strada negli abissi dell’anima. Allora il penitente prostrato nella polvere grida:
“O Dio, sii placato verso me il — solo — [io sono il solo] peccatore”.

Nel Nome di Gesù
(Giov. 16. 23-24; Fatti 3. 1-16)
Solo quel Nome vale nell’Universo — e che tutto e tutti siano in quel Nome.
Guai a chi, nell’Antico Testamento, bestemmiasse il Nome; guai a chi nel Nuovo non si appoggi a quel Nome!
L’umano linguaggio non ci aiuterà a capire, se non in parte. “Nome” è il distintivo della persona — e dippiù — figurativamente, esprime il carattere e la storia dell’individuo. Dopo tutte le possibili definizioni, e noi siamo incapaci a definire, ma solo accenniamo, inevitabilmente alcune parole si debbono lasciare co­me sono, perché quello che si sente e si conosce nello spirito, nel­l’uomo interiore, è difficile formulano adeguatamente in parole; spesso è addirittura impossibile.
Vivere, agire nel Nome di un altro significa avere rinunziato al proprio. È più che avere noi un nuovo nome, perché questo appartiene a chi lo riceve. Vivere “nel Nome” significa come un dimenticare financo che esistiamo noi separatamente ma che ci immedesimiamo in altri, in tale modo che ne prendiamo il nome.
L’illustrazione più vicina è quella della donna che va a marito, per cui lascia il nome di origine ed assume quello del consorte. Però, nel caso nostro si tratta non di assumere un titolo, ma di essere “nel Nome”, sentirsi quell’Altro, e non noi stessi.
È possibile — come in tutto ciò che è elevato — abusare o illudersi, ma noi intendiamo dire di quelli che spariscono innanzi a se stessi, e son così identificati in Gesù, che camminano, par­lano, pregano in quel Nome.
Non hanno più amici, se non in quel Nome. Non più nemici se non in quel Nome. — E non pregano più, se non nel Nome.
Cioè, se un tempo attiravano a sé l’attenzione altrui. ora non desiderano neppure d’essere guardati in faccia, se non per amore di Cristo. — Nemici personali, se ne hanno provocati nel passato, ora si studiano di non averne, perché non danno importanza a sé stessi da provocare o sentirsi provocati.
Nell’accostarsi poi, al Trono della Grazia, sentono di non meritare nulla, ma riducono le loro preghiere a quelle che Gesù farebbe per mezzo delle loro bocche. Come se domandassero:
Firmerà il Signore, farà sua questa mia richiesta, o no? Non che facciano letteralmente tale esame, ma ci arrivano, senza nemme­no accorgersene. Lo Spirito Santo che li porta nel regno dell’ora­zione, li immerge Lui nel Nome. Si notino le parole: « Percioc­ché PER ESSO [attraverso Lui!] abbiamo gli uni gli altri intro­duzione al Padre, in uno Spirito » (Efesi 2.18).
Un esempio tratto da Fatti, capo 3: Pietro e Giovanni affis­sarono gli occhi sullo storpio dalla porta Bella. Non si udivano preghiere; ma di certo erano in intima comunione col Signore.
Pietro disse allo zoppo: “Riguarda noi”, invitandolo così a mettersi in comunione con loro, e per mezzo loro, con l’Invisibile che lo storpio non sapeva, e non vedeva.
Poi aggiunse: “Io non ho né argento, né oro; ma quel che io ho tel dono: Nel nome di Gesù il Nazareno, levati e cammina”.
Noi abbiamo, a volte, esagerato la povertà di alcuni santi, o forse abbiamo pensato che avessero fede perché erano material­mente poveri. È vero che Pietro volle letteralmente affermare che non aveva né argento né oro. Ma è anche vero che le parole hanno un’applicazione di lunga distesa. « Argento. oro » indicano le varie risorse a cui l’uomo si appoggia. In mancanza di un mezzo, spesso ne usiamo un altro. Il debole, il povero, ed anche il ricco usa spesso l’artificio e l’inganno.
Inoltre è possibile possedere argento ed oro di altri in ammi­nistrazione, o nostri, e usarli come a doverne dare conto. “Pove­ro”, “Ricco” sono parole relative. Si può non aver nulla e cre­derci importanti; si può avere molto, e crederci nulla.
Le parole di Pietro possono ridursi a due monosillabi. Un grande “No”. — Un grande “Sì”. Ed è il “No” che rende formidabile il « SI ».
Non ho nulla su cui appoggiarmi, e promettere.
Ma ho il diritto, nel mio nulla di usare il Nome che è tutto. Qui, presente, non sono io, povero SCONOSCIUTO, ma è Gesù di Naza­ret. Ed è Lui che ti parla per la mia bocca. — Da me non isperare nulla: NEL NOME DI GESÙ IL NAZARENO, LEVATI E CAMMINA.
Al popolo meravigliato di vedere lo zoppo camminare, saltare, lodare Dio, Pietro così parlò:
“Uomini Israeliti, perché vi meravigliate di questo? Ovvero, che fissate in noi gli occhi, come se per la nostra propria virtù o santità avessimo fatto che costui cammini?”.
Gli apostoli erano immersi nel Nome, prima, ed immersi nel Nome dopo l’accaduto. — Vivevano nel Nome, e di esso si occu­pavano. Meraviglia che Dio operi? — Riguardate a noi? — Chi siamo noi? — E spiega:
“L’Iddio di Abrahamo e d’Isacco, di Giacobbe, l’Iddio dei nostri padri ha glorificato il Suo Figliuolo Gesù Cristo...”.
“E per la fede nel Nome di esso, il Nome Suo ha raffermato costui, il quale voi vedete e conoscete; e la fede che è per Esso: gli ha dato questa intiera disposizione di membra, in presenza di tutti voi!”.

Il Regno di Dio - Annali 1948-1949-1950