L'EPISTOLA AGLI EBREI

 

INTRODUZIONE

 

1. L'Epistola nella Chiesa antica

 

Le prime tracce lasciate dall'Epistola agli Ebrei nella letteratura cristiana primitiva risalgono alla fine del secolo apostolico. L'Epistola di Clemente romano ai Corinzi, scritta nel 96, non nomina, è vero, la Lettera agli Ebrei né l'autore di essa, ma vi si contano più di quaranta passi che sono citazioni o reminiscenze del documento biblico. «Prendiamo Enoc il quale, trovato giusto nella sua ubbidienza, fu traslocato, né fu scoperta la di lui morte (da confr. con Ebrei 11:5). Per la sua fede ed ospitalità fu salvata Raab la meretrice (Cfr. Ebrei 11:31). Diventiamo imitatori di coloro che andarono attorno vestiti di pelli di capre e di pecore cfr. Ebrei 11:37. Dio è l'investigatore dei pensieri e dei sentimenti del cuore Ebrei 4:13. Cristo è il sommo sacerdote delle nostre offerte, colui che ci assiste e soccorre nella nostra debolezza Ebrei 4:15-16. Il quale essendo lo splendore della di lui maestà (di Dio), è di tanto superiore agli angeli ch'egli ha ereditato un nome più eccellente del loro. Perocché sta scritto così: «il quale fa degli angeli suoi dei venti ecc.» confr. con Ebrei 1:3-5,7,13. L'Epistola era dunque nota in Roma fin dagli ultimi anni del primo secolo e considerata come un'autorevole esposizione della verità cristiana. Certe espressioni particolari adoperate da scrittori della prima metà del IIo secolo e che non s'incontrano nel N.T. all'infuori dell'Epistola agli Ebrei, inducono a credere che l'Epistola fosse letta del pari in Asia Minore ed altrove. Policarpo chiama Cristo «il sommo Sacerdote eterno». L'autore dell'Epistola detta di Barnaba parla del «sangue dello spruzzamento». Giustino martire dà il titolo di «apostolo» a Gesù (cfr. Ebrei 3:1) e nel Dialogo con Trifone si leggono dei passi che somigliano da vicino ad alcuni luoghi dell'Epistola: «Purificati, non più con sangue di becchi e di pecore o colla cenere di una giovenca o con offerte di fior di farina...» (Dial.13 cfr. con Ebrei 9:12); «Il quale essendo, secondo l'ordine di Melchisedec, re di Salem e sacerdote eterno dell'Altissimo...» (Dial.113 con Ebrei 7).

 

Nell'ultima parte del II secolo e nel corso del III, troviamo l'Epistola agli Ebrei conosciuta nelle varie parti della cristianità; ma giudicata più o meno autorevole a seconda che la si ritiene opera dell'apostolo Paolo o di un suo collaboratore.

 

Nelle chiese di Siria essa è letta pubblicamente come lo attesta la Bibbia siriaca o Peschitto (circa il 175), in cui l'Epistola figura senza nome di autore dopo quelle di Paolo a Timoteo, Tito e Filemone. In Egitto, la chiesa di Alessandria considerava l'Epistola agli Ebrei come paulinica; ma i celebri dottori della Scuola catechetica, pur ammettendo una qualche paternità di Paolo, non poterono chiudere gli occhi alle difficoltà cui andava incontro la tradizione popolare. Panteno, ad esempio, spiegava il fatto singolare della mancanza del nome di Paolo apostolo al principio della lettera, col dire che Paolo l'aveva omesso per modestia, considerando «che il Signore stesso era stato mandato agli Ebrei quale apostolo dell'Onnipotente», mentre egli Paolo era propriamente l'apostolo delle Genti. Clemente alessandrino soggiunge che Paolo, conoscendo i pregiudizi dei Giudei contro a lui, non li volle urtare fin dal bel principio mettendo innanzi il suo nome. Negli scritti conservatici di quel dottore, la Lettera agli Ebrei è citata come di Paolo; ed Eusebio riferisce che Clemente la riteneva di Paolo, ma la diceva «scritta da lui agli Ebrei, in lingua ebraica» e tradotta poi con cura da Luca per i Greci. Origene è condotto dal suo acume critico a limitare ancora maggiormente la parte che l'apostolo avrebbe avuta in questo scritto. Egli non fa più parola di un originale ebraico e si esprime in questi termini: «Lo stile dell'Epistola agli Ebrei non ha il carattere speciale di quello dell'apostolo Paolo... L'Epistola è scritta in miglior greco come riconoscerà ogni persona avvezza a giudicare delle diversità dello stile. D'altra parte ognuno che attenda alla lettura degli scritti degli apostoli riconoscerà del pari che i pensieri sono mirabili e non sono per nulla inferiori a quelli degli scritti notoriamente apostolici... Se io dovessi manifestare la mia opinione direi che i concetti (ta nohmata) sono dell'Apostolo; ma la lingua e la composizione (frasiV, sunqeiV) sono di uno che ricordava e notava le cose dette dal maestro. Se dunque alcuna chiesa ritiene quest'Epistola come di Paolo, sia ella approvata anche in questo; poiché non senza ragione gli antichi l'hanno tramandata come di Paolo. Chi poi abbia scritto l'Epistola, Dio solo lo sa in modo certo; ma stando ai racconti giunti fino a noi, secondo gli uni l'avrebbe scritta Clemente divenuto vescovo dei Romani, secondo gli altri Luca, lo scrittore del Vangelo e dei Fatti. Ma su questo basta». Origene sa che la maggior parte delle chiese non ritengono la lettera come paolina; ma siccome la sostanza è conforme all'insegnamento dell'apostolo, non vuol condannare quelle in cui vige una diversa tradizione.

 

Nelle chiese d'Occidente l'epistola non è, a quest'epoca, attribuita a Paolo, né fa parte della raccolta degli scritti ammessi alla lettura pubblica; ma è conosciuta ed apprezzata da molti quale documento autorevole. Il Canone detto di Muratori (A.D. circa 175) non la mentova; e quand'anche la si volesse identificare con una delle due epistole agli Alessandrini ed ai Laodicesi ivi date come apocrife, sarebbe sempre escluso che Paolo ne fosse l'autore, poiché, dice il catalogo, «Paolo ha scritto a sette chiese». Ma risulta d'altronde dal documento stesso che le suddette epistole portavano il nome di Paolo ed insegnavano lo gnosticismo di Marcione, il che non risponde al contenuto dell'Epistola agli Ebrei. Ireneo vescovo di Lione non la cita mai nell'opera sua contro le eresie, non facendo essa parte del Canone occidentale; ma, secondo Eusebio, egli ne aveva fatto uso in un'opera perduta contenente vari discorsi. Stefano Gobaro, citato e confermato da Fozio, asserisce che «Ippolito (presbitero romano, morto il 251) ed Ireneo dicevano l'Epistola agli Ebrei non essere di Paolo». Così insegnava del pari un altro presbitero romano, Caio (a.220), il quale non contava come paoline che le tredici epistole portanti il nome dell'apostolo.

 

Quanto alle chiese dell'Africa proconsolare, è da notare che il Canone Momseniano (circa il 300) non contiene l'Epistola agli Ebrei; che Cipriano vescovo di Oartagine (morto il 258) non la cita mai e parla solo di sette chiese come avendo ricevuto lettere da Paolo. Il suo silenzio è tanto più notevole ch'egli avrebbe potuto trarre dall'Epistola degli argomenti a sostegno della sua rigidità disciplinare. Prima di loro, Tertulliano, scrivendo intorno al 220, il suo libro Deuteronomio Pudicitia ove combatte la riammissione dei cristiani caduti nel peccato di adulterio o di fornicazione, dopo aver citato a sostegno della sua tesi l'A.T., gli Evangeli, gli Atti, tutta la schiera delle Epistole di Paolo nonché l'Apocalisse e la prima di Giovanni, per mostrare che la dottrina apostolica mira a sradicare dalla chiesa ogni sacrilego attentato alla castità, senza far parola di riammissione, prosegue nel modo seguente: «Voglio tuttavia, in via surrogatoria, addurre ancora la testimonianza di qualche compagno degli Apostoli atta a confermare, sussidiandolo, l'insegnamento dei maestri. Esiste infatti una lettera agli Ebrei di Barnaba, uomo rivestito da Dio di tale autorità che Paolo lo nomina come suo compagno in fatto di astinenza quando esclama: Ovvero io solo e Barnaba non abbiamo noi podestà di far ciò? E l'Epistola di Barnaba gode dovunque presso alle chiese maggior credito di quell'apocrifo Pastore dei fornicatori (il Pastore di Hermas)». Cita quindi commentandolo il passo Ebrei 6:1,4-8, poi conclude: «Quegli adunque che aveva imparato dagli apostoli e insegnato con essi, non aveva mai avuto conoscenza di un secondo ravvedimento promesso dagli apostoli all'adultero ed al fornicatore. Difatti egli interpretava egregiamente la legge e riteneva la realtà vera delle di lei figure». Risulta da questo passo che la lettera agli Ebrei non faceva parte del Nuovo Testamento africano di quell'epoca, ma era largamente conosciuta ed apprezzata in seno alle chiese. Inoltre i manoscritti veduti da Tertulliano l'attribuivano a Barnaba il compagno di Paolo, o per lo meno, esisteva in Africa una tradizione esplicita in proposito.

Ciò è comprovato da un altro fatto. Nel Codice Claromontano (D2) è inserito tra le Epistole di Paolo e quella agli Ebrei un catalogo dei libri sacri che risale al 300 circa e indica per ciascun libro del N.T. il numero delle linee di cui si componeva. Ora vi si trova mentovata dopo le Epistole Cattoliche e prima dell'Apocalisse e dei Fatti, una «Epistola di Barnaba» corrispondente esattamente per la sua estensione all'Epistola agli Ebrei, come risulta da vari raffronti fatti sopra manoscritti diversi. Vero è che nei primi secoli ebbe voga nelle chiese una lettera attribuita a Barnaba e di cui il Mc. sinottico ci ha conservato il testo completo. Ma quell'Epistola è di un terzo più lunga di quella agli Ebrei, per cui non può esser quella indicata nel Catalogo del Claromontano. Questo documento dunque, chiamando Epistola di Barnaba l'Ep. agli Ebrei riproduce la stessa tradizione orale o scritta che abbiamo constatata nel passo di Tertulliano ed, attesta inoltre che, verso il 300, essa circolava nelle chiese insieme agli scritti del N.T. e ad alcuni apocrifi.

 

Il quarto secolo fu l'epoca in cui si giunse, così in Oriente come in Occidente, a fissare in modo definitivo i libri che dovevano formare il canone. Non già che sia cessato del tutto, dopo il 400, ogni dissenso individuale intorno all'autorità di qualche libro; ma divenne generale nelle chiese il consenso riguardo ai ventisette libri che costituiscono il N.T.

Come si spiega che l'Occidente abbia accolta l'Epistola agli Ebrei nel Canone e sia giunto insieme ad attribuirla a Paolo? Ce lo dice, in poche parole, uno degli uomini che esercitarono, in questo periodo, la più larga influenza sulle chiese occidentali: Agostino. Più che il dubbio di alcuni, egli dice, «mi persuade l'autorità delle chiese orientali le quali tengono anche questa epistola fra i libri canonici». Cotale autorità derivava dal fatto che molte chiese dell'Oriente avevano avuto per fondatori degli apostoli. Esse avevano, oltre a ciò, annoverato dei dottori celebri come Clemente, Origene, Eusebio ecc. la cui scienza volgarizzata da uomini come Rufino e Girolamo aveva allargato le idee; la gran lotta contro l'arianismo aveva avuto i suoi più strenui campioni in Oriente; e d'altronde le chiese d'Occidente si erano reso conto, meglio di prima, dell'alto valore religioso dell'Epistola agli Ebrei, per cui le obiezioni alla canonicità dello scritto erano svanite e solo persisteva fra i cultori delle scienze bibliche il dubbio riguardo all'autore della Lettera anonima.

 

In Oriente un tale dubbio era quasi interamente sparito. Eusebio, pur notando che alcuni fra i Latini non ricevono l'Epistola agli Ebrei, annovera fra gli scritti universalmente accettati quattordici epistole di Paolo, includendo quella agli Ebrei. Cirillo di Gerusalemme (a. 348) conta parimenti quattordici lettere di Paolo chiamandole il suggello degli altri libri. Così fanno il concilio di Laodicea (circa il 360); Amfilochio vescovo d'Iconio (morto il 390), Gregorio Nazianzeno (morto il 390), Crisostomo (morto il 407), Atanasio vescovo d'Alessandria (morto il 373) il quale colloca l'Epistola agli Ebrei dopo quelle scritte da Paolo alle chiese e prima di quelle private; Epifanio vescovo di Salamina in Cipro (morto il 403). I due più antichi codici unciali, il Vaticano (B) ed il Sinottico (alef) assegnati dai paleografi alla prima metà del IVo secolo, contengono l'Epistola agli Ebrei ponendola tra le Epist. di Paolo alle chiese e quelle rivolte da lui ad individui.

 

In Occidente si può seguire la lenta evoluzione dell'opinione ecclesiastica che finisce, sul cadere del IVo secolo, col trovarsi d'accordo con quella dell'Oriente. Filastrio di Brescia (morto circ. 397) nel suo Libro delle eresie non conta che tredici Epistole di Paolo e tace di quella agli Ebrei; ma la cita altrove osservando che gli uni l'attribuiscono a Paolo, altri a Barnaba ed altri a Clemente od a Luca. Ilario di Poitiers (morto il 368) si attiene all'opinione d'Origene accettando l'Ep. come canonica. Rufino d'Aquilea morto a Messina nel 410, conoscitore profondo dell'Oriente, traduttore d'Origene e d'Eusebio, annovera quattordici lettere di Paolo. Il concilio regionale tenuto in Roma nel 382 sotto il vescovo Damaso conta 14 epistole di Paolo, collocando però quella agli Ebrei alla fine, dopo le quattro private. Il vescovo di Roma Innocenzo I nel 405, scrivendo a quello di Tolosa, novera 14 epistole di Paolo e così pure il Decreto di Gelasio. Il dalmata Girolamo (morto il 420), l'uomo più versato dell'epoca sua negli studii biblici, accetta praticamente il canone atanasiano coi 27 libri del N.T.; ma conta tredici epistole di Paolo, annoverando a parte l'Ep. agli Ebrei sulla quale osserva: «Paolo scrisse a sette chiese; l'ottava infatti, quella agli Ebrei, dai più non si annovera colle altre... Non si crede sia di lui per la diversità dello stile e della lingua... Va detto ai nostri (latini) che cotesta epistola agli Ebrei si riceve come apostolica non solo dalle chiese d'Oriente, ma da tutti gli antichi scrittori ecclesiastici di lingua greca, sebbene molti la ritengano di Barnaba o di Clemente; e poco importa di chi sia, dal momento che ha per autore un uomo autorevole nella Chiesa ed è onorata quotidianamente della pubblica lettura nelle chiese. Che se l'uso dei Latini non la riceve fra le scritture canoniche, le chiese greche usano della stessa libertà col non ricevere l'Apocalisse di Giovanni. Quanto a noi, riceviamo amendue, seguendo, più che l'uso del presente, l'autorità degli antichi scrittori».

Agostino attenendosi in materia di canonicità al criterio del numero e dell'importanza delle chiese che ricevono o rigettano un libro, conta come canoniche quattordici epistole di Paolo ponendo per ultima l'Ep. agli Ebrei, sulla quale nota che resta per alcuni dubbia la sua canonicità. I due concilii di Cartagine, quello del 397 e quello del 419, offrono una caratteristica diversità d'espressione. Il primo porta: «Tredici Epist. di Paolo apostolo, più, dello stesso, una agli Ebrei»; il secondo novera addirittura «quattordici epistole di Paolo ap.».

Il Medio Evo non revocò in dubbio l'opinione formulata nelle decisioni ecclesiastiche del IV secolo, ma coi tempi della Riforma, pur restando universalmente accettata la canonicità dell'Epistola, risorsero le obiezioni antiche all'origine paulina di essa. Erasmo e Cajetano non la credono opera dell'Apostolo; ma in seno alla chiesa cattolica ogni discussione fu troncata col decreto del Concilio di Trento (sess. IV), il quale annovera nel Canone «quatuordecim epistolae Pauli ap.» ponendo quella agli Ebrei per ultima. Lutero t'attribuì ad Apollo, Calvino non la crede di Paolo ma non si pronunzia sul vero autore. Beza dice; «Restino qui liberi i giudizii degli uomini; ma tutti dobbiamo riconoscere che quest'epistola è stata veramente dettata dallo Spirito Santo e conservata alla Chiesa come preziosissimo tesoro».

Ai giorni nostri, la critica ha risollevata la questione dell'autore e si può dire ormai quasi del tutto abbandonata l'opinione espressa circa l'Autore, nel titolo del testo ordinario: «L'Ep. di S. Paolo apostolo agli Ebrei».